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Le (non) Olimpiadi 2020: Storie sui Giochi Olimpici by Francesco Incorpora

Durante il lockdown, grazie alla condivisione social, mi è capitato di vedere che tante persone, un po’ per tenere occupata la mente e un po’ per ritrovare vecchie passioni, si sono dedicate ad attività diverse da quelle che si svolgono quotidianamente, naturalmente la cosa vale anche per me. Fiutando, poi, che i Giochi di Tokyo sarebbero stati rinviati, ho deciso che sarebbe stata l’occasione giusta per unire due dei miei più grandi hobby: la scrittura e lo sport.
A partire da oggi e fino al 9 Agosto (data di chiusura prevista per le Olimpiadi), pubblicherò ogni giorno un storia, celebre o meno celebre, legata ai Giochi.
Ogni opinione, condivisione, critica e commento saranno ben accetti.
Buona lettura.

P.S.
Un ringraziamento speciale va a Giulio Messina sempre di grande supporto e prezioso nel colmare alcune delle mie lacune.

24 Luglio – Giorno 1 di 17

L’Ultimo Tedoforo

La cerimonia d’apertura di ogni grande manifestazione rappresenta un punto di partenza fondamentale per la buona riuscita dell’evento. E’ la presentazione agli occhi del mondo di mesi, o meglio anni, di lavoro, progettazione ed impegno. Sono dipinti usi e costumi del paese ospitante con danze, musiche e tradizioni.
Qual è però il momento che maggiormente rimane impresso negli occhi di chi assiste?
Senza dubbio l’accensione del braciere Olimpico.
Sebbene gli artifici e gli stratagemmi siano dettagli coloriti del momento, a rubare l’occhio è specialmente la figura dell’ultimo tedoforo. Dal 1936 fino ad oggi la tradizione vuole che la persona preposta al fatidico gesto sia qualcuno che colpisca l’attenzione del pubblico, e spesso, per mantenere viva l’attesa, il nome non viene svelato.
Tanti sono stati gli atleti di caratura internazionale, ma quello che non verrà mai dimenticato è certamente Muhammad Ali ad Atlanta nel 1996. Il fu Cassius Clay è un uomo che non ha bisogno di presentazione, dalla vittoria olimpica a Roma 1960 alla lotta per i diritti civili passando per il celeberrimo rifiuto alla leva militare.
“Float like a butterfly, sting like a bee” o “I am the greatest, I said that even before I knew I was” sono solo alcune delle sue massime, mentre tra i suoi incontri più famosi si ricordano Thrilla in Manila contro Joe Frazier o Rumble in the Jungle contro George Foreman.
Nel 1996, però, sono ormai dieci anni che Ali sta combattendo contro un avversario più forte di lui e che lo porterà via un giorno di Giugno del 2016, il morbo di Parkinson
La cerimonia fu emozionante, la nuotatrice Janel Evans salì gli ultimi gradini e da lì a poco apparve Alì; colui che era stato per anni il ritratto di forza e velocità si mostrò in quel momento in tutta la sua fragilità, debole e in preda ai tremiti. Tuttavia, la forza di volontà che lo aveva accompagnato nel corso della sua vita non lo aveva abbandonato, sicché non senza difficoltà riuscì a dare il via al meccanismo che in pochi secondi accese il braciere olimpico, scatenando il boato del pubblico presente.
In quell’occasione, a Muhammad Ali venne anche riconsegnata la medaglia d’oro di Roma che lui dichiarò di aver lanciato nel fiume Ohio in segno di protesta contro il suo paese, ma che probabilmente andò perduta poco dopo i Giochi italiani.
Tutto perfettamente normale per The Greatest of all Time.

25 Luglio – Giorno 2 di 17

L’imbroglio Olimpico

A colui che diede vita alle Olimpiadi moderne nel 1896, Pierre De Coubertin, viene erroneamente attribuita la celeberrima frase “L’importante è partecipare, non vincere”; infatti quando il francese pronunciò queste parole citò anche la fonte ufficiale, un monaco anglicano statunitense che officiò delle messe durante i Giochi del 1908.
Malgrado ciò, i Giochi Olimpici sono l’appuntamento più importante nella vita di moltissimi atleti, il traguardo da raggiungere per coronare una carriera o l’occasione di riscattarsi da una vita di sacrifici. Proprio per questo motivo, tanti atleti nel corso della storia hanno tentato di aggirare il regolamento pur di conquistare l’agognata medaglia.
Se negli ultimi anni abbiamo assistito alla triste vicenda del doping di stato russo, splendidamente rappresentata nel documentario premio Oscar “Icarus”, fino a pochi anni prima il tentativo più singolare di aggirare il regolamento è certamente quello dell’atleta sovietico Boris Grigoryevich Onyshchenko.
L’episodio incriminato ha luogo nel 1976, ai giochi canadesi di Montreal. La squadra di pentathlon russa arrivava alla rassegna canadese forte di un argento nel 1968 e di un oro nel 1972. A guidare la squadra c’èra il campione del 1971 Boris Onyshchenko, nato nell’attuale Ucraina e favoritissimo alla vigilia per la vittoria individuale e a squadre. Il pentathlon moderno unisce cinque discipline: Nuoto, Scherma, Equitazione, Tiro al bersaglio e Corsa.
La Russia, al termine della prima prova, si trovava al quarto posto e si affidava alla scherma per riacciuffare le posizioni da podio; la prova in pedana consisteva in un assalto nella specialità della spada, chiunque avesse colpito l’avversario per primo avrebbe vinto l’assalto, assegnando il punto alla propria nazione. Con l’avvento della tecnologia, la stoccata veniva segnalata dalla chiusura di un circuito elettrico che accendeva una luce. Per far chiudere il circuito era necessario colpire il corpo dell’avversario con la punta della spada imponendo una forza pari a circa 750 gr. Russia e Gran Bretagna scesero in pedana, il primo incontro di Onyshchenko si chiuse rapidamente a favore del campione russo, nonostante una protesta britannica rapidamente rigettata dai giudici. Onyshchenko vinse agevolmente anche il secondo incontro, ma questa volta il giudice si accorse immediatamente che qualcosa non andava e volle controllare l’arma del russo. Sorpresa: all’interno del manico era presente un bottone che permetteva al circuito di chiudersi senza che fosse necessario colpire l’avversario.
La carriera del campione russo si chiuse di fatto in quel momento: egli venne immediatamente escluso dai giochi e rispedito a casa, dove pochi giorni dopo venne convocato da Leonid Breznev, segretario del partito comunista. Ritiro di tutti i riconoscimenti e congedo dall’Armata Rossa furono le inevitabili conseguenze.
Divenuto tassista a Kiev, di lui non si seppe più nulla.

26 Luglio – Giorno 3 di 17

Il “Bagno di sangue di Melbourne”

Le grandi sfide sportive sono sempre state il succo delle competizioni internazionali, le grandi rivalità sono ricordate anche a decenni di distanza e quando subentrano questioni extra sportive il mix è esplosivo. Sicuramente le vicende politiche dal secondo dopoguerra in poi hanno favorito situazioni borderline come quella della storia di oggi. La mancanza di un reale conflitto militare e le numerose tensioni latenti tra stati hanno contribuito a conferire alle sfide sportive un’importanza superiore rispetto al passato.
L’Olimpiade di Melbourne del 1956 ritrae alla perfezione il contesto appena descritto, una situazione che si sarebbe ripresentata negli anni a venire. Alla fine di quell’anno, proprio nei mesi antecedenti ai Giochi, a Budapest si respirava una profonda tensione nei confronti dell’Unione Sovietica. L’affiorare di questa crisi sfocerà nella rivoluzione ungherese dell’ottobre e del novembre 1956, e si concluderà con l’intervento armato sovietico ed un numero di vittime superiore alle 2000 unità.
In modo collaterale anche il mondo sportivo risentì della situazione politica; il calcio magiaro, che fino a quel momento aveva dominato l’Europa, vide terminare la propria egemonia. L’Honved, squadra in cui militavano i più importanti calciatori ungheresi, si rifiutò di tornare in patria in seguito ad una trasferta europea, sicché la squadra venne sciolta dal governo ungherese su pressione della Fifa. Il risultato fu che molti giocatori non fecero mai più ritorno dalle proprie famiglie e iniziarono una nuova carriera nel resto d’Europa. Uno di questi, probabilmente il più importante, fu Ferenc Puskas, che dopo due anni di squalifica e dopo aver girato mezza Europa si accasò al Real Madrid, formando con Alfredo DI Stefano una delle più grandi coppie della storia del calcio.
Un’altra delle squadre magiare che spiccavano per costanza e rendimento era senza dubbio quella di pallanuoto, squadra che in quegli anni dominò i medaglieri olimpici con tre ori in quattro edizioni.
Come detto, le sfide sportive assumono un valore ben superiore quando subentrano questioni politiche; e allora, chi mai avrebbero affrontato i pallanuotisti magiari se non proprio la selezione sovietica?
Sulla carta, la squadra più forte era senza ombra di dubbio quella ungherese. Nei giorni antecedenti alla rassegna olimpica le squadre si sfidarono due volte: la prima gara venne vinta dall’Urss, si narra con un arbitraggio “discutibile”, la seconda invece venne vinta dall’Ungheria. E fu proprio durante una delle due partite, prima del fischio d’inizio, che scoppiò una rissa negli spogliatoi tra i giocatori delle due nazionali.
La premesse per la partita di Melbourne erano quindi tutt’altro che buone; anni dopo, il giocatore più talentuoso dell’Ungheria, Zador, disse che la squadra si caricò moltissimo nei giorni antecedenti alla partita, ben consapevole della propria forza. La strategia magiara era quella di innervosire gli avversari con scorrettezze dentro e fuori dall’acqua, approfittando della situazione per assicurarsi la vittoria. L’incontro passò così alla storia con il nome di “bagno di sangue di Melbourne”, in seguito ad un pugno di Prokopov che colpì proprio Zador, provocandogli una grossa ferita sotto l’occhio. Da quel momento, al palazzetto fu il caos: molti sostenitori ungheresi tentarono di scendere a bordo vasca, sostenuti anche da tifosi locali. La situazione divenne ingestibile e l’arbitro fu costretto a fermare la partita mentre il risultato era 4-0 per l’Ungheria.
Zador non potè più continuare il torneo ma i suoi compagni riuscirono comunque a vincere l’ennesima medaglia d’oro. Come molti altri sportivi ungheresi, i giocatori della squadra di pallanuoto non poterono più far ritorno in patria e furono costretti a trasferirsi in altri paesi. Zador andò negli Stati Uniti, dove, tra gli altri, allenò Mark Spitz, vincitore di sette ori a Monaco e di cui si parlerà nei prossimi giorni.

27 Luglio – Giorno 4 di 17

Di Donna-Campriani, oro all’ultimo respiro

Dei migliaia di grandi eventi sportivi a cui abbiamo assistito ve ne sono alcuni di cui è impossibile dimenticarsi, spesso per merito di una particolare rivalità, altre volte per dejavù ed analogie rispetto ad episodi del passato. Questi componenti attribuiscono un valore emotivo superiore alla media e fanno sì che certi episodi entrino nella memoria di chi ha assistito e non vadano più via.
Quando si incontra qualcuno che ha visto in diretta quella partita, sfida o episodio, è facile constatare come la persona si ricordi esattamente tutto il contesto in cui si trovava e racconti con estrema cura ogni dettaglio di quell’evento.
Uno degli episodi che si possono inserire in questa categoria è la gara di Tiro a segno, nello specifico quella della pistola ad aria compressa, svoltasi alle Olimpiadi di Atlanta 1996.
Roberto Di Donna è un atleta delle fiamme gialle specializzato nel tiro a segno e che vanta risultati di rilievo negli anni antecedenti alle Olimpiadi americane. Quel che gli manca è l’oro nella manifestazione più importante. Tuttavia, neppure questa par essere la volta giusta; il suo avversario è il cinese Wang, autentico dominatore della scena mondiale nel tiro e vincitore dell’oro a Barcellona. Questi è considerato quasi una macchina perfetta per la continuità e la scarsa predisposizione all’errore. Ed in effetti la gara segue alla lettera il pronostico, Wang non sbaglia un colpo e prende la leadership con un vantaggio piuttosto cospicuo; Di Donna, di contro, dopo una buona rimonta sul bulgaro Kiriakov si attesta al secondo posto e pregusta la piazza d’onore. Si arriva così all’ultimo tiro con una distanza di 3,8 punti tra il primo ed il secondo. In uno sport in cui si gioca sul decimo questa distanza è incolmabile ed infatti dopo il 10,4 di Di Donna i commentatori italiani annunciano già la medaglia d’argento. A sconvolgere le previsioni è però qualcosa di impensabile, Wang viene infatti schiacciato dalla pressione e sbaglia l’ultimo colpo, aprendo in questo modo le porte dell’oro a Di Donna.
Come anticipato, però, lo sport ci regala spesso dei dejavù: quasi venti anni dopo, a Rio 2016, Niccolò Campriani, altra leggenda del tiro, si trova nelle stesse condizioni del connazionale.
La storia di Campriani è davvero interessante: cresciuto come un predestinato nella specialità della carabina 10 e 50 metri, vince tutto ciò che c’è da vincere in Italia e si presenta a Pechino nel 2008 da esordiente ai Giochi Olimpici. La qualificazione alla finale ad otto va avanti senza problemi per “Nicco”, è terzo prima dell’ultimo colpo e si appresta a conquistare la finale. Qualcosa però va storto ed il colpo finisce 3,34 millimetri lontano dal centro, margine sufficiente per passare dal terzo al dodicesimo posto, fuori dalla finale. Campriani subisce il contraccolpo psicologico di quell’episodio e per riprendersi decide di cambiare vita, va a studiare a ad allenarsi in un college americano e torna a casa con una testa ed una consapevolezza molto diverse. A Londra, nel 2012, conquista l’argento nei 10 metri e oro nei 50, e a Rio nella gara da 10 metri conquista il tanto agognato oro che mancava al suo palmares.
L’ultima gara della carriera di Campriani ai Giochi Olimpici è quella in cui si spara da 50 metri, il toscano è il campione uscente e nonostante le medaglie già vinte, pensa solo ad aggiungerne un’altra alla collezione. La gara è molto tirata, Campriani soffre la fase centrale e arriva agli ultimi colpi in controllo per la medaglia d’argento ma piuttosto distante per l’oro.
Stessa storia vent’anni dopo: Campriani spara per primo, il tiro è discreto ma non perfetto, il portacolori azzurro sorride, conscio del fatto che a meno di episodi clamorosi salirà sul secondo gradino del podio. Anche stavolta però il destino prevede altro, il russo Kamenskyi spara con poca decisione e l’8,3 che ne viene fuori non è sufficiente per stare davanti all’atleta italiano.
E nelle incredibili storie e coincidenze che regala lo sport, chi era al commento di quella straordinaria gara di Rio 2016 per la Rai? Chi se non Roberto Di Donna, naturalmente.

28 Luglio – Giorno 5 di 17

Il più giovane campione olimpico

Nel 2020 i Giochi Olimpici non sono più una semplice manifestazione sportiva, ogni momento è ripreso da decine di telecamere, ogni attività è sponsorizzata e tutto ciò che accade viene riportato dopo pochi minuti da giornali, siti e televisioni. Un tempo, però, prima che le Olimpiadi diventassero un business e prima dell’avvento delle tecnologie attuali, tanti episodi non venivano testimoniati, rimanevano sopiti ed esistevano solo nella memoria dei pochi testimoni presenti all’epoca.
Proprio per questa ragione, tutti i racconti provenienti dalle prime edizioni dell’epoca moderna sono avvolti da un alone di mistero che spesso ne mette in dubbio la veridicità. Ma come dice un vecchio motto: “perché rovinare una bella storia con la verità?” Fu così che per anni si pensò che Hitler si rifiutò di congratularsi con Jesse Owens a Berlino nel 1936 o che la celebre frase “L’importante non è vincere ma partecipare” sia stata pronunciata per la prima volta da De Coubertin.
Una delle storie più interessanti cadute nell’oblio della memoria a causa della mancanza di prove tangibili è quella riguardante la medaglia d’oro più giovane della storia dei Giochi.
Il 1900 è un anno importante per la Francia: la Tour Eiffel viene eretta pochi mesi prima dell’inizio dell’Expo a Parigi e sempre la città sulla Senna ospiterà i Giochi della II Olimpiade.
L’orgoglio dei francesi è rinomato: da padroni di casa è fondamentale ben figurare anche a livello sportivo, e così nel “due con”, specialità del canottaggio che prevede a bordo dell’imbarcazione i due canottieri ed il timoniere, i francesi si presentano da favoriti e si qualificano alla finale con il primo tempo, staccando di 8 secondi l’equipaggio olandese. Saranno proprio i tulipani a riservare una brutta sorpresa ai transalpini.
La squadra formata da Francoise Antoine Brandt e Roelof Klein, insieme al timoniere Hermanus Brockmann, si rende conto che gli otto secondi rimediati in semifinale sono un gap troppo grande da recuperare in finale, così decide di sostituire il timoniere con un bambino accorso per assistere alla competizione. Mossa non esattamente correttissima ma comunque efficace: i soli 33 chili del nuovo membro della squadra aiutano ad abbassare il peso complessivo e consentono agli olandesi di ricucire il divario, vincendo per un solo metro sui padroni di casa.
Fu così che nacque la leggenda della più giovane medaglia d’oro della storia, di cui naturalmente si perse ogni traccia. Tutto regolare nelle Olimpiadi di quel periodo.

29 Luglio – Giorno 6 di 17

Lo spirito Olimpico

Dall’antica Grecia, e poi ancora dal 1896 fino ai giorni nostri, la rassegna olimpica rappresenta un evento che scandisce i quadrienni sportivi di tanti atleti. Nel corso delle numerose edizioni abbiamo avuto la fortuna di assistere a momenti storici, trionfi epocali ed eventi che hanno cambiato le vite di molti atleti.
Le vittorie conquistate, i podi e la gioia di ricevere la medaglia al collo, il tutto accompagnato dal proprio inno nazionale, sono una componente fondamentale dell’attaccamento degli atleti alla rassegna olimpica. Non tutti, però, arrivano al successo; anzi, nella maggior parte dei casi il podio è solo un miraggio, e ciò che rende davvero speciale quei venti giorni di sport è la passione con cui gli atleti vivono la possibilità di esibirsi in un palcoscenico del genere. Ancora oggi chi ha partecipato alle Olimpiadi viene visto come una sorta di eroe, motivo per cui in tanti, pur sapendo di non aver possibilità di vittoria, riescono comunque a regalare momenti indimenticabili, anche nella sconfitta.
Gli esempi sono numerosi, ma i tre che maggiormente mi hanno colpito sono quello della nazionale di bob giamaicana, del nuotatore guineano Eric Moussambani e del velocista britannico Derek Redmond.
La storia della nazionale di bob caraibica è probabilmente quella più conosciuta, anche grazie ad una divertente, seppur romanzata, trasposizione cinematografica chiamata Cool Runnings. La similitudine tra il gesto atletico dello sprint su una pista da atletica e dello sprint durante la partenza di una prova di bob fece pensare che una terra ricca di velocisti come la Jamaica potesse produrre anche dei bobbisti di livello. La qualificazione ai Giochi invernali di Calgary fu una prima storica, e sebbene i risultati furono deludenti e terminarono con un cappottamento, diedero vita ad un progetto che ancora oggi vede atleti dell’isola caraibica sfrecciare sul ghiaccio, sempre con il motto: “ The Hottest Thing On Ice”

La seconda storia che rappresenta alla perfezione lo spirito olimpico viene direttamente dai Giochi di Sydney 2000. Grazie a dei progetti che avevano lo scopo di aprire la partecipazione olimpica a nazioni con scarse strutture e bacini d’utenza ristretti, in Australia molte nazioni di scarsa tradizione ebbero la possibilità di portare alcuni dei loro atleti. Uno di questi si chiamava Eric Moussambani, nuotatore proveniente dalla Guinea Equatoriale. Il guineano fu portabandiera della sua delegazione ( che contava quattro atleti in tutto) e si rese protagonista di uno dei momenti più emozionanti ed indimenticabili delle olimpiadi di Sydney. Durante le batterie dei 100 stile, Moussambani fu costretto a nuotare da solo, viste le squalifiche per falsa partenza del nigerino Karim Bare e del tagiko Farkhod Oripov. La partenza con panciata fu il preambolo ad una prova ben lontana dagli standard olimpici; la prima vasca, seppur nuotata in modo stilisticamente povero, venne affrontata senza grosse difficoltà, mentre la seconda ed ultima fu invece un’autentica via crucis per Moussambani, che terminò la prova con il tempo di 1’52”72, distante più di un minuto dai tempi dei suoi avversari. La fatica ed il coraggio mostrati dall’atleta africano vennero però riconosciuti ed apprezzati dal pubblico presente, che al suo arrivo gli dedicò una standing ovation certamente indimenticabile. Moussambani, del resto, aveva imparato a nuotare solo 8 mesi prima ed in strutture tutt’altro che adatte a preparare una gara olimpica. L’impegno profuso lo rese meritevole del più grande dei riconoscimenti di un evento sportivo.
La terza e ultima storia parla di un atleta che ha ben poco in comune con quelli delle altre due. Derek Redmond è infatti un forte velocista britannico che, nonostante una carriera costellata da infortuni, arriva alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 come uno dei seri contendenti alle medaglie nei 400 metri piani. Il velocista, detentore del record britannico sulla distanza, fu costretto quattro anni prima a dare forfait ai giochi di Seul per un problema al tendine d’achille occorso pochi secondi prima della partenza della gara. A Barcellona, dopo aver superato agevolmente le batterie, si apprestava a correre la semifinale. Dopo appena mezzo giro, però, la sfortuna tornò a bussare alla porta di Redmond: una lesione al bicipite femorale lo costrinse a fermarsi improvvisamente. Tuttavia, questa volta il britannico non aveva alcun intenzione di lasciare incompiuto il suo operato. In lacrime per il dolore, saltellando su una gamba sola, Redmond riprese la sua gara e dopo pochi metri fu aiutato anche dal padre, sceso in pista in fretta e furia evitando i tentativi di blocco della sicurezza. Anche in quest’occasione la scena commosse tutto il pubblico presente, che all’arrivo dedicò a Redmond un’incredibile ovazione.

30 Luglio – Giorno 7 di 17

Cinque cerchi per spezzare una maledizione

“Nemo propheta in patria”
Quante volte è capitato di sentire questa arcinota locuzione latina?
L’origine biblica di questa frase ha ormai lasciato spazio ad un significato spesso associato al mondo delle competizioni sportive. I campioni che fanno incetta di trofei in giro per il mondo ma che non riescono ad imporsi davanti al pubblico di casa sono molti; le aspettative, l’ansia da prestazione e le motivazioni degli avversari sono un ostacolo che tante volte ha fermato gli eroi di casa.
Sebbene in alcuni casi sia più un’estremizzazione per fini giornalistici, in altri il digiuno di successi casalinghi è davvero diventato un tabù o una maledizione.
Il caso più lampante risiede in ambito tennistico, ed il fatto che l’All England Club, Wimbledon per i meno esperti, sia il teatro di questa vicenda non fa che aumentarne la portata mediatica. Fino al 2012, sui prati londinesi, un giocatore britannico non trionfava dal 1936, anno in cui Fred Perry sconfisse in finale il tedesco Gottfried Von Cramm.
A differenza di tanti altri sport in cui gli atleti britannici hanno dominato per anni, nel tennis i giocatori che hanno vinto la maggior parte dei titoli provengono da luoghi molto più distanti; tra questi sicuramente possiamo ricordare gli americani Ashe, Sampras e Agassi o gli australiani Laver, Newcombe ed Emerson. Negli ultimi anni, poi, il duo Roger Federer-Rafa Nadal ha letteralmente monopolizzato i campi di tutto il mondo.
I primi anni del 2000 hanno però riacceso le speranze degli spettatori londinesi di vedere un proprio beniamino trionfare davanti gli occhi della famiglia reale, sempre presente all’atto finale del più importante torneo della stagione. Tim Henman prima e Andy Murray successivamente hanno dimostrato di essere in grado di raggiungere il livello necessario per poter vincere dei tornei importanti, pur non essendo riusciti tuttavia a sfatare il tabù di Wimbledon.
Il 2012 fu però un anno particolare, l’erba dei campi londinesi fu infatti messa a dura prova da ben due edizioni del torneo di Wimbledon: la prima, quella canonica, si disputò tra il 25 Giugno e l’8 Luglio, la seconda, quella olimpica, venne giocata nel mese di Agosto.
Quale occasione migliore di un’Olimpiade per rompere la maledizione di Wimbledon?
Andy Murray ha sempre avuto un rapporto particolare con il pubblico e la stampa locali, britannico quando vinceva e scozzese quando perdeva. Nel 2012 illuse il pubblico di casa nella prima edizione di Wimbledon vincendo il primo set contro sua maestà Roger Federer, ma perdendo i successivi tre e dicendo addio ancora una volta ai sogni di gloria.
Ai Giochi però la musica cambiò decisamente: superati i primi due turni con dei netti 2-0, ebbe le prime ed uniche difficoltà del torneo contro il cipriota Baghdatis. Dopo il 4-6 del primo set, Murray ribaltò il risultato e superò anche i due turni successivi contro Almagro e Djokovic. La finale del torneo, unica partita disputata sui 5 set, lo vide nuovamente contro Federer, ed anche stavolta il primo set fu suo. In questa occasione, però, il beniamino del pubblico non si fermò ed il 6-1/6-4 dei parziali finali furono il preludio ad un successo ancor più atteso della medaglia d’oro olimpica.
Per completare l’opera, infine, Murray spezzò definitivamente la “maledizione” vincendo le edizioni “canoniche” del torneo sia nel 2013 che nel 2016, prima contro Novak Djokovic e poi contro Milos Raonic

31 Luglio – Giorno 8 di 17

Louie Zamperini, da Berlino 1936 a Nagano 1998

Da più di 120 anni a questa parte, i Giochi Olimpici regalano grandi storie da raccontare, incredibili imprese sportive, vittorie e sconfitte che hanno segnato un’epoca. Raggiungere una manifestazione del genere, però, non è per tutti. Per ogni atleta che riesce a realizzare il proprio sogno ce ne sono migliaia che invece non riescono a raggiungerlo. Infine ci sono esseri umani che pur non riuscendo ad arrivare a partecipare, o magari riuscendo a farlo senza lasciare un segno, si rendono protagonisti di incredibili storie, possibili solo grazie ai sacrifici fatti per raggiungere un obiettivo.
Uno di questi esseri umani è certamente Louie Zamperini, atleta ed eroe di guerra statunitense che ha passato una vita intera a sognare i Giochi e che grazie alla sua volontà e alla sua determinazione è riuscito a sopravvivere dove chiunque altro avrebbe fallito.
Nato nel 1917 a New York da una famiglia di origini italiane, Louie iniziò con l’attività sportiva sin da piccolo, e ben presto sci ed l’atletica leggera diventarono il suo pane quotidiano. Negli ultimi anni dell’High School Zamperini rimase imbattuto, guadagnandosi grazie a queste prestazioni una borsa di studio in California. Chiuso da atleti più grandi e nel picco della propria carriera, decise di cambiare specialità per provare ad ottenere il pass per i Giochi tedeschi del 1936. Le caratteristiche tra un atleta dei 1500 metri ed uno dei 5000 metri sono molto diverse, tuttavia le motivazioni erano talmente forti da consentirgli di riuscire nel suo intento. A Berlino, davanti agli occhi di Hitler, si qualificò alla finale chiudendo all’ottavo posto complessivo, meritandosi molti complimenti e puntando all’edizione giapponese di 4 anni dopo per la medaglia.
Le Olimpiadi di Tokyo però non sono mai particolarmente fortunate, e se nel 2020 ci ha pensato una pandemia globale a farle rinviare, nel 1940, come tutti sanno, la seconda guerra mondiale scombinò i piani del mondo intero.
Zamperini si arruolò nell’aviazione e fu assegnato ad una divisione stanziata nel Pacifico. Proprio durante una missione l’aereo in cui si trovava precipitò e Louie si trovò con due compagni in mezzo all’oceano con pochissime provviste a disposizione.
In una situazione del genere tanti si sarebbero arresi, ma non lui, non una persona abituata a fare tanti sacrifici; così, dopo 47 giorni ed ormai in fin di vita, Zamperini ed uno dei due compagni che erano con lui furono recuperati dalla marina giapponese.
Portato in un campo di prigionia nipponico, passò i successivi due anni a sopportare vessazioni e torture sotto il comando del sergente Matsushiro Watanabe, detto “The Bird”. A guerra finita tornò dalla sua famiglia negli Stati Uniti e divenne un fervente credente.
Zamperini aveva però ancora un conto in sospeso con i Giochi Olimpici, e per questo, più di mezzo secolo dopo, a circa ottant’anni fu uno degli ultimi tedofori alle Olimpiadi di Nagano nel 1998. In quell’occasione camminò a pochi chilometri dal campo in cui fu recluso per due anni e ne approfittò anche per incontrare i suoi carcerieri di un tempo. A detta di molti, l’unico che si rifiutò di incontrarlo fu proprio il sergente Watanabe a cui comunque Zamperini inviò una lettera in cui lo perdonò per ciò che subì tanti anni prima.
Una storia così incredibile non poteva che essere rappresentata anche in versione cinematografica, così nel 2014 Angelina Jolie diresse “Unbroken”.

1 Agosto – Giorno 9 di 17

Gli squali Usa

Nonostante i testa a testa e gli scontri all’ultimo respiro siano l’essenza di ogni sport, non sempre è possibile avere una rivalità che rubi l’occhio. Tante volte ci sono atleti superiori, talenti cristallini che monopolizzano l’attenzione del pubblico e fanno incetta di titoli e medaglie.
La magia attorno ai Giochi è tale, però, da riuscire a rendere indimenticabile le performance anche senza la suspance di una gara tirata e quando questi domini diventano una costante nel tempo, ecco che grazie al contesto a cinque cerchi, le grandi storie diventano leggenda.
Nel nuoto i campioni statunitensi sono sempre stati garanzia di successo, Tokyo 2020 sarebbe dovuta essere l’edizione della consacrazione di Caeleb Dressel, dominatore assoluto dei mondiale sudcoreani dello scorso anno e favorito numero uno in tante gare della rassegna olimpica.
Il giovane, nato in Florida nel 1996, specialista nelle gare veloci del delfino e dello stile libero, in Giappone il prossimo anno cercherà di seguire le orme di due suoi illustri connazionali, entrambi passati alla storia per il record di medaglie d’oro conquistate in singola edizione, si parla ovviamente di Mark Spitz e Michael Phelps.
Il primo dei grandi nuotatori a stelle e strisce è, come anticipato, Mark Spitz, detentore di 7 medaglie d’oro ed altrettanti record mondiali ai Giochi di Monaco nel 1972. Quello che è davvero incredibile della storia di Spitz, allenato in carriera anche da Ervin Zador (pallanuotista ungherese di cui si è parlato negli scorsi giorni) è il fatto che riuscì ad essere un atleta completo ed un cannibale sportivo in un’epoca in cui, specialmente in ambito natatorio, questi monopoli non erano all’ordine del giorno. Il fatto che quasi cinquanta anni dopo il suo record sia stato battuto da un solo atleta è qualcosa di difficile da spiegare e che rende chiara la portata delle gesta del nuotatore californiano.
Phelps, nativo di Baltimora, è considerato da molti il più grande nuotatore di tutti i tempi, nel suo palmares vanta 66 medaglie d’oro tra Olimpiadi, mondiale e campionati continentali. Nei primi anni del nuovo millennio dopo aver stabilito il proprio dominio sul palcoscenico mondiale ha scelto come obiettivo quello di eguagliare o se possibile superare il record di Spitz di 7 ori nella stessa edizione. A Pechino 2008 sbalordì il mondo intero vincendo 100 e 200 farfalla, 200 stile, 200 e 400 misti oltre alle 3 staffette 4×100 stile, 4×200 stile e 4×100 misti. In quella occasione Phelps stabilì 7 record mondiali ed 1 olimpico, grazie anche ai costumi in poliuretano utilizzati nel biennio 2008-09 e banditi dalla stagione 2010. La medaglia più difficile da conquistare fu la settima, quella dei 100 farfalla. Nei giorni antecedenti alla finale, il serbo Milorad Cavic dichiarò che avrebbe fatto di tutto per impedire a Phelps di tornare a casa con gli 8 ori e così nei primi metri di gara tentò di scavare una distanza incolmabile per il Baltimore Bullet. Alla virata Phelps si trovò in settima posizione, davanti soltanto al giapponese Fujii. Nella vasca di ritorno, però, recuperò rapidamente tutti gli avversari e negli ultimi 25 metri, bracciata dopo bracciata, accorciò il gap dal serbo fino a toccare la piastra praticamente in simultanea. Il cronometraggio automatico diede ragione al nativo del Maryland per un solo centesimo e nonostante il successivo reclamo della delegazione serba, prontamente rigettato, la settima medaglia fu in cassaforte.
Poco più di 24 ore dopo, insieme ai compagni di staffetta, Phelps scrisse la storia vincendo l’ottavo oro nella 4×100 misti e piazzando un record che difficilmente verrà battuto.

2 Agosto – Giorno 10 di 17

Bikila&Fosbury, tradizione e innovazione

Quanto è cambiato dal punto di vista tecnologico nella storia dei Giochi Olimpici?
Ovviamente la risposta è tanto, se non tutto.
L’esempio più lampante è quello legato al cronometraggio: manuale fino al 1932 ed elettronico ma rudimentale fino al 1964, quando Seiko portò un nuovo sistema che cambiò per sempre il modo di segnare i tempi. Anche nella copertura mediatica l’evento ha fatto un salto di qualità netto: Berlino 1936 fu la prima edizione interamente ripresa e trasmessa, da Londra 1948 invece fu possibile a tutti assistere alle gare grazie all’avvento della Tv.
Le novità però non si sono viste solo dal punto di vista tecnologico.
Tecnica e innovazione hanno sempre accompagnato il mondo dello sport, risultando talvolta fondamentali per una vittoria e talvolta rivoluzionari per lo sport stesso. Il continuo progresso scientifico ha senza dubbio favorito l’incremento delle prestazioni dei singoli atleti, ma alla base c’è un fattore tecnico sviluppato nel tempo che risulta essere imprescindibile per l’evoluzione dello sport stesso.
Anche la tradizione però ha sempre avuto un ruolo fondamentale, basti pensare che ancora oggi tedofori e fiaccole si alternano per trasportare simbolicamente la fiamma di Olimpia dall’Antica Grecia fino alla sede dei Giochi.
Prendendo spunto dal concetto di tradizione ed innovazione non possono che venire in mente le gesta di due grandi atleti, entrambi medaglie d’oro, che hanno lasciato un ricordo indelebile nella storia dei Giochi: Abebe Bikila e Richard “Dick” Fosbury.

Abebe Bikila nacque in Etiopia il 7 Agosto 1932, data che si sarebbe rivelata profetica per il destino dell’atleta africano: quel giorno, infatti, si corse la maratona dei giochi di Los Angeles 1932. Bikila stupì il mondo alle Olimpiadi di Roma 1960, correndo e vincendo proprio la maratona a piedi scalzi. Passato alla storia come prima medaglia d’oro africana, la storia della maratona a piedi scalzi è stata tante volte travisata. Non è vero, infatti, che la scelta venne dettata dall’abitudine dell’etiope ad allenarsi in quel modo, ma fu piuttosto un problema con le scarpe che avrebbe dovuto indossare per la gara. Nei giorni antecedenti alla gara, l’atleta andò a ritirare le Adidas con le quali avrebbe dovuto correre, ma durante degli allenamenti quelle calzature gli procurarono una vescica per cui fu il suo allenatore a suggerirgli di correre scalzo per evitare che quel problema si ripresentasse in gara.

Il secondo protagonista del racconto odierno è il simbolo assoluto dell’evoluzione tecnica nel salto in alto, l’americano Dick Fosbury. Fino al 1968 era pratica comune il cosiddetto salto ventrale. In pratica gli atleti dopo aver staccato da terra tentavano di superare l’asticella con la pancia rivolta verso il basso, diversamente da quanto vediamo ai giorni nostri. A rivoluzionare il sistema fu proprio Fosbury, ventunenne di Portland che utilizzò la nuova tecnica, ormai nota come Fosbury Flop, prima ai trials di qualificazione e poi ai Giochi. Il gesto consisteva nel rivolgere la schiena all’asticella, permettendo all’atleta, grazie all’arco naturale formato dalla colonna, di raggiungere altezze superiori. A Città del Messico lo statunitense vinse l’oro stabilendo il record del mondo di quel tempo, pari a 2,24 metri.
In quell’occasione Fosbury gareggiò con due scarpe differenti, ma non per scelta stilistica, bensì perché, a detta sua: “la destra di quel colore mi dava una spinta verso l’alto superiore rispetto a un altro tipo di calzatura”.

3 Agosto – Giorno 11 di 17

Long-Owens, amicizia ai tempi della guerra

Jesse Cleveland Owens e Carl Ludwig Herman Long nel 1936 a Berlino sono la perfetta rappresentazione di due ideologie diametralmente opposte che nel giro di pochi anni porteranno al più grande conflitto del ventesimo secolo. Ciononostante, i protagonisti della finale del salto in lungo delle Olimpiadi di Berlino del 1936 dimostreranno che anche quando una strada sembra segnata un semplice gesto di rispetto e amicizia può cambiare tutto.
La storia del primo è arcinota: atleta afroamericano di nazionalità statunitense dotato di capacità formidabili che lo porteranno a dominare gli ultimi Giochi prima della Seconda Guerra Mondiale e a ricevere addirittura i complimenti del Fuhrer in persona. Carl Long, detto Luz, nato nel 1913 a Lipsia rappresenta alla perfezione il modello ariano, alto, biondo e slanciato. Luz costruisce la sua carriera di saltatore in lungo nei primi anni ’30 ed arriva all’OlympiaStadion con i favori del pronostico, forte di numerose medaglie conquistate nei campionati mondiali ed europei e del sostegno del pubblico tedesco.
Il gesto che cambierà la storia e unirà per sempre i protagonisti della gara avvenne durante la qualificazione per la finale del salto in lungo. Mentre Long superò agilmente e senza fatica la distanza necessaria per l’approdo al turno successivo, Owens ebbe molte difficoltà in più; negli stessi minuti si stava infatti svolgendo la qualificazione per i 200 metri e l’atleta americano faticò a ritrovare la concentrazione dopo la vittoria nella propria batteria.
Dopo due salti nulli, in cui Owens superò con il piede la zona di stacco, l’atleta statunitense si preparò per l’ultimo e decisivo tentativo. A quel punto Long, sebbene andasse contro i propri interessi, decise di aiutare il proprio rivale, compromettendo in questo modo le proprie possibilità di vittoria. Avvicinatosi ad Owens, gli suggerì di partire una trentina di centimetri indietro, utilizzando un fazzoletto bianco come segnale per indicare il punto esatto. Il consiglio risultò vincente ed Owens si qualificò per la finale, nella quale conquistò la medaglia d’oro proprio davanti all’ormai amico Long.
I due, nei giorni seguenti, trascorsero molto tempo insieme nel villaggio olimpico, finendo per diventare grandi amici. Gli scambi epistolari degli anni successivi testimoniano come i due non persero i contatti.
Long continuò l’attività agonistica per breve tempo. Nel 1939 si laureò e divenne avvocato, nel 1941 si sposò e pochi mesi dopo divenne padre di Kai. Purtroppo nel 1943 venne richiamato alle armi, e qualcuno sostiene che il regime nazista gli fece pagare il gesto di quel giorno a Berlino. Luz venne inviato in Sicilia nella divisione Goring e perse la vita poco tempo dopo nella difesa dell’aeroporto di Biscari-Santo Pietro, nei pressi di Caltagirone.
Le sue spoglie si trovano presso il cimitero militare germanico, situato a Motta Sant’Anastasia, insieme ai più di 4000 soldati tedeschi caduti in Sicilia durante la guerra.

4 Agosto – Giorno 12 di 17

La leggenda del Dream team

Anni di Giochi Olimpici ci hanno abituato a grandi exploit sportivi e a domini incontrastati. La nazionale italiana di scherma o quella cinese di tuffi ne rappresentano un chiaro esempio. A tal proposito, il predominio più longevo e sempre meno in discussione è certamente quello della nazionale maschile americana di pallacanestro: gli Usa vantano la bellezza di 15 medaglie d’oro, 1 d’argento e 2 di bronzo su un totale di 19 edizioni, finendo fuori dal podio solo in occasione dei giochi boicottati a Mosca.
Nonostante questo, anche gli “imbattibili” statunitensi hanno affrontato dei momenti di difficoltà, uno dei quali risale a Seul 1988. La “semplice” medaglia di bronzo conquistata in terra coreana, alle spalle di Urss e Jugoslavia, segnerà infatti un’autentica svolta per il movimento cestistico statunitense.
La sconfitta contro gli acerrimi rivali, specie in quel contesto storico, fu la motivazione principale che spinse la federazione americana a mettere in piedi la squadra più forte di tutti i tempi. Fino all’edizione del 1988, infatti, gli Stati Uniti portavano alle Olimpiadi squadre formate da soli giocatori universitari, eliminando dalla selezione tutti i professionisti che giocavano nella National Basketball Association.
La Nba, sotto le sagge mani di David Stern, Commissioner della Lega per trenta stagioni e scomparso proprio all’inizio di quest’anno, passò da essere una piccola Lega sull’orlo del fallimento all’icona dei giorni nostri. Proprio negli anni precedenti all’Olimpiade di Barcellona del 1992, del resto, nel campionato giocavano tre leggende viventi come Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson.
La squadra dei sogni prese forma proprio attorno a questi tre nomi: le tre stelle furono affiancate da campioni come Malone, Stockton, Barkley, Pippen e Ewing. A completare il roster Draxler, Mullin, Robinson e l’universitario Laettner.
Un curioso episodio, avvenuto durante la preparazione per i Giochi, si verificò a Montecarlo a pochissimi giorni dal debutto olimpico: un’amichevole di preparazione si trasformò, a detta dei presenti, nella più grande partita di tutti i tempi. La squadra blu guidata da Michael Jordan e la squadra bianca guidata da Magic Johnson si sfidarono senza esclusione di colpi, e con una buona dose di trash talking, fino al risultato finale di 40-36 per Jordan e compagni. In campo quel giorno si sfidarono nove futuri Hall of Famer dell’Nba.
Il torneo fu una mera formalità, Angola, Brasile, Germania, Lituania, Porto Rico, Spagna e due volte Croazia vennero spazzate via con uno scarto medio di 44 punti. Da quel giorno i professionisti non perdono occasione di partecipare ad una manifestazione così prestigiosa. Con la canotta Usa si sono visti giocatori del calibro di Kobe Bryant, Lebron James, Kevin Durant, Stephen Curry e tanti altri. I risultati non poterono che essere memorabili, dal 1992 il medagliere conta infatti 6 ori ed 1 bronzo.

5 Agosto – Giorno 13 di 17

Tommie Smith e John Carlos, un pungo alzato a favore dei diritti umani

I Giochi Olimpici sono senza ombra di dubbio l’evento sportivo più coperto da media e televisioni di tutto il mondo, nelle ultime edizioni infatti si è raggiunto addirittura un numero superiore a 200 nazioni rappresentate. Per ovvie ragioni, i giorni della rassegna a 5 cerchi diventano quindi l’occasione ideale per chiunque per protestare, manifestare le proprie idee o più semplicemente essere sotto lo sguardo del mondo per qualche minuto.
Proprio per questo motivo nella storia dei giochi non sono mancati boicottaggi o proteste più o meno vistose. Se il reciproco forfait tra Stati Uniti e Unione Sovietica è noto al mondo intero, molto meno noto è quello della maggior parte delle nazioni africane nell’edizione del 1976 in segno di protesta contro l’ammissione della Nuova Zelanda, rea di aver inviato la propria nazionale di Rugby in tournée in Sud Africa in pieno periodo Apartheid.
Anche a livello individuale i gesti plateali non sono mai mancati: dalle unghia con smalto arcobaleno contro l’omofobia alle braccia alzate con i polsi incrociati del maratoneta etiope Feyisa Lilesa a Rio 2016. Ma la madre di tutte le proteste rimane ovviamente quella messa in atto dai due velocisti americani Tommie Smith e John Carlos.
Il clima di quegli anni era parecchio teso: 3 anni dopo la marcia di Selma la situazione negli Stati Uniti stava diventando incandescente, le morti di Martin Luther King e Bob Kennedy, oltre al perdurare del conflitto in Vietnam, non facevano che inasprire una situazione già al limite per l’annosa piaga del razzismo. In questo clima di tensione il gesto dei duecentisti afroamericani acquistò un valore simbolico ancora più potente.
Il plateale gesto ha origine grazie ad un suggerimento dell’Olympic Project for Human Rights, impegnato attivamente da anni per portare all’attenzione pubblica le questioni riguardanti i diritti umani. Durante la cerimonia di premiazione, in seguito all’oro e al bronzo vinti nei 200 metri piani, Smith e Carlos attesero l’inizio dell’inno americano per abbassare il capo ed alzare i pugni, foderati da un guanto nero, verso il cielo.
La protesta costò agli atleti l’esclusione dai Giochi e l’allontanamento dal villaggio Olimpico. Tuttavia, essi restano simbolo della protesta più clamorosa della storia delle Olimpiadi.
Ciò che in pochi sanno di questa vicenda è che anche Peter Norman, medaglia d’argento australiana, partecipò al gesto di protesta indossando una spilla dell’OPHR; non solo, a quanto pare fu proprio lui a suggerire ai due americani di indossare un singolo guanto ciascuno, dato che Carlos dimenticò di portare il suo paio. E proprio Norman fu la persona che pagò le più gravi conseguenze di quel gesto: tornato in patria venne aspramente criticato ed allontanato dalla Nazionale, e quattro anni dopo, pur essendosi qualificato per le gare di Monaco, venne escluso dalla delegazione oceanica che preferì non presentare alcun velocista.
Norman non venne neanche preso in considerazione per partecipare all’organizzazione dei Giochi di Sydney 2000, pur essendo il più grande sprinter della storia dell’Australia. Solo dopo la sua morte, nel 2010, il governo australiano si scusò con Norman e ammise i propri errori, proclamando il Peter Norman Day. Ma Norman non fu mai solo: nel giorno della sua morte, nel Giugno del 2006, a portare il feretro del grande atleta australiano c’erano gli amici di un tempo, Tommie Smith e John Carlos.

6 Agosto – Giorno 14 di 17

Cathy Freeman, la rivincita aborigena

Quando si pensa ad episodi di razzismo o ad interi popoli privati della propria libertà o dell’uguaglianza sociale, il primo pensiero non può che andare alla storia degli Stati Uniti, all’Apartheid in Sud Africa o alla persecuzione del popolo ebraico nella prima metà del Novecento.
Uno dei paesi che raramente è associato a problemi di questo tipo è l’Australia, terra meravigliosa e lontana, che sembra distante da questo tipo di piaghe. La verità invece è ben diversa perché, analogamente a quanto successo in America con i nativi americani, in Australia la convivenza con gli aborigeni ha creato non pochi grattacapi.
Dal 1788 in poi, data di arrivo dei primi colonizzatori europei, la vita della popolazione autoctona ha iniziato ad essere molto più problematica: malattie, omicidi e perdita dei propri possedimenti (e quindi di sostentamento) hanno fatto in modo che la popolazione nel giro di un paio di secoli si riducesse di più del 90%. Fortunatamente dagli anni ’70 in poi è iniziato un processo che gradualmente ha riportato dignità al popolo aborigeno, riconoscendogli dignità e diritti pari a tutti gli altri cittadini australiani. Addirittura nel 2008 il primo ministro Kevin Rudd chiese ufficialmente scusa alle popolazioni aborigene per la cosiddetta “Stolen Generation”
Come spesso accade in questi casi, il popolo soggiogato sviluppa un forte senso di appartenenza alle proprie origini e questo caso non è diverso. Gli aborigeni sono molto legati alle loro tradizioni e anche nel mondo dello sport tengono a far emergere la propria appartenenza.
L’episodio che meglio rappresenta la storia di questa popolazione e l’evoluzione di un paese come l’Australia è la vittoria di Cathy Freeman alle Olimpiadi casalinghe di Sydney 2000.
Cathy Freeman è una delle più grandi atlete della storia dell’atletica leggera australiana, debuttò a soli 17 anni ai giochi del Commonwealth ed in carriera ha conquistato numerose medaglie nei 400 metri piani. L’atleta, di origini aborigene, fu al centro di grandi polemiche quando nel 1994, dopo l’ennesima vittoria, corse il giro d’onore sventolando due bandiere: quella australiana e quella aborigena. In un periodo in cui la convivenza tra i due popoli creava ancora tanti problemi, un gesto del genere non poteva che generare un grande caos, specialmente visto il trattamento ricevuto da Peter Norman, molti anni prima, dopo essersi schierato apertamente a favore dei diritti umani nel celeberrimo podio di Città del Messico insieme a Smith e Carlos.
A ridosso del nuovo millennio, però, l’Australia era un paese ben più maturo e lo dimostrò in occasione dei giochi casalinghi. Alla cerimonia d’apertura a portare la fiaccola al braciere olimpico fu proprio la Freeman, in un gesto che simboleggiava la ritrovata serenità tra il popolo aborigeno ed i discendenti dei colonizzatori britannici.
Pochi giorni dopo durante i 400 metri piani, Cathy Freeman, conquistò l’oro, unica medaglia mancante nel suo ricco palmares, e anche in quell’occasione.

7 Agosto – Giorno 15 di 17

Zatopek-Ingrova, coppia d’oro

Per costruire una carriera di successo è necessario che un atleta faccia molti sacrifici, i più pesanti sono sicuramente quelli legati ai rapporti umani. Non di rado infatti gli sportivi sacrificano la propria vita sociale a favore quella sportiva e la naturale conseguenza è che anche la vita sentimentale orbiti attorno al mondo dello sport.
Di coppie nello sport e nella vita è piena la storia, alcune di grande successo come Agassi e Steffi Graff o altre che hanno raggiunto molti meno successi dal punto di vista professionale.
Una delle coppie meno conosciute ma che ha segnato un record praticamente ineguagliabile, è quella formata dal leggendario corridore Emil Zatopek e dalla giavellottista Dana Ingrova, successivamente Zatopkova.
Gli indizi per capire che le vite dei due atleti cecoslovacchi sarebbero state legate a doppio filo erano numerosi, nelle vicine citta di Koprivcine e Karvina, il 19 settembre del 1922 nascevano Zatopek ed Ingrova.
Emil si dedicò alla carriera sportiva solo in tarda età, i primi anni della sua vita furono dedicati ad il lavoro in fabbrica; arruolato per la guerra passò gli anni del conflitto mondiale affinando le sue capacità fisiche, allenandosi per più di 4 ore al giorno.
Il nome dei due atleti salì alla ribalta per la prima volta ai Giochi Olimpici del 1948 ed ebbe il momento di maggior splendore in occasioni dei giochi finlandesi di Helsinki 1952. In quell’occasione Zatopek riscrisse i canoni del fondo e del mezzofondo vincendo in meno di una settimana le medaglie d’oro nei 5000 metri, nei 10000 metri e nella maratona. L’incredibile diversità delle suddette discipline fece si che il campione cecoslovacco da quel momento venne soprannominato la Locomotiva umana. Quel che è davvero incredibile è il fatto che lo stesso giorno in cui Zatopek vinse la prima delle sue medaglie, la moglie Dana Ingrova vinse nel lancio del giavellotto la prima ed unica medaglia d’oro della sua storia olimpica.
A rendere ancor più grande la leggenda di Zatopek sono le dinamiche che portarono alla partecipazione alla rassegna finlandese. Quando gli atleti cecoslovacchi arrivarono in Finlandia lui non era presente, aveva rifiutato la convocazione come gesto di solidarietà per il suo compagno e amico Sebastian Jungwirth, escluso dalle convocazioni per il semplice fatto di essere figlio di un anticomunista. La Federazione, messa spalle al muro dal più forte atleta della delegazione, fu costretta a riammettere Jungwirth.
Al termine della carriera agonistica, Zatopek ed Ingrova furono in prima linea nell’opposizione al regime comunista in Cecoslovacchia culminato nella Primavera di Praga del 1968, questo costrinse entrambi all’esilio dalla città e al rifugio sulle montagne nei paesi natii.
Solo nel 1989, al crollo del regime comunista, la coppia d’oro riacquistò la dignità nazionale che meritava e tornò a vivere nella capitale ceca. Ingrova, venuta a mancare pochi mesi fa, rimase accanto al marito fino alla morte nel novembre del 2000.

8 Agosto– Giorno 16 di 17

Usa-Urss, la partita infinita

Those last three seconds.
Gli statunitensi, si sa, sono maestri nell’assegnare titoli ad effetto a momenti che hanno fatto la storia dello sport. “The Shot”, il celebre canestro con cui Michael Jordan mandò al tappeto gli Utah Jazz nel 1998 è sicuramente il più noto, quello però che gli americani ricordano con meno piacere è sicuramente “Those last three seconds”, frase con cui oltreoceano si ricorda la prima sconfitta olimpica della storia della nazionale di pallacanestro Usa.
I Giochi del 1972 vengono ricordati principalmente per l’attacco terroristico ai danni della nazionale israeliana, perpetrato da miliziani palestinesi, per la prima il movimento olimpico perde il suo candore e si trova a fare i conti con il mondo reale. Alla fine a perdere la vita furono i 9 ostaggi israeliani, 5 degli 8 terroristi, un poliziotto tedesco ed il pilota di uno degli elicotteri.
Dal punto di vista sportivo quella manifestazione regalò momenti indimenticabili, su tutti le otto medaglie d’oro conquistate da Mark Spitz o le prime storiche medaglie italiane nel nuoto, grazie alla diciottenne padovana Novella Calligaris.
Il momento SPORTIVO più controverso però appartiene di diritto alla finale maschile di pallacanestro.
Quasi un decennio prima dei boicottaggi di Mosca e Los Angeles, si sfidano le nazionali dell’Urss e degli Stati Uniti e basterebbe questo a rendere l’incontro indimenticabile, ad aggiungere interesse alla contesa però è il modo in cui le squadre si presentano alla partita. I sovietici sono gli autentici dominatori della scena europea e sono i favoriti alla vigilia, gli americani devono rinunciare ai loro professionisti e schierano una squadra di universitari, sono però imbattuti nei tornei olimpici e vantano una striscia di 63 vittorie consecutive.
Durante i primi 30 minuti di partita tutto gira a favore dei sovietici, due dei giocatori più importanti degli Usa devono lasciare il campo per un’espulsione ed un infortunio ed il punteggio recita un +10 che in pochi ritengono recuperabile. Negli ultimi 10 minuti gli americani però sfoderano la miglior prestazione di quel torneo olimpico e addirittura effettuano il sorpasso a 3 secondi dalla fine grazie alla realizzazione dalla lunetta di Doug Collins, futuro allenatore dei primi Chicago Bulls di Michael Jordan.
Da quel momento in poi, il caos.
La rimessa veloce dell’Urss termina in un nulla di fatto e la medaglia sembra andare ancora una volta al collo della nazionale a stelle e strisce, in realtà il coach sovietico ha chiamato un timeout e gli arbitri non si sono accorti di nulla. Dopo varie proteste sarà addirittura il presidente della Federazione Internazionale a scendere in campo ed ordinare che vengano rigiocati i 3 secondi rimasti. Il secondo tentativo viene viziato da un errore dei cronometristi al tavolo, il tempo infatti non venne resettato correttamente l’Urss si trovò con un solo secondo da giocare. I giocatori USA pensando alla fine esultarono per ilo successo ma ancora una volta dovettero ricacciare in gola le urla di gioia perché gli arbitri, accorgendosi del problema, decisero di ripetere l’azione.
Il terzo tentativo è quello buono: la lunga rimessa sovietica termina tra le braccia di Alexandr Belov che, approfittando di uno scontro tra due difensori, segnò il canestro decisivo probabilmente commettendo anche violazione di passi.
Naturalmente gli Stati Uniti fecero ricorso ma tutto finì in un nulla di fatto. Amareggiati dalla situazione gli americani boicottarono la cerimonia di premiazione lasciando spazio ad un podio socialista: oro all’Urss, bronzo a Cuba.
Si dice che ancora oggi in un caveau di Losanna, sede del Cio, vi siano 10 medaglie d’argento in attesa di essere ritirate, probabilmente rimarranno lì ancora per molto.

9 Agosto- Giorno 17 di 17

La maratona di Shizo

54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi.
Questo è il tempo finale della maratona olimpica di Stoccolma di Shizo Kanakuri, iniziata negli anni ’10 e completata dopo più di mezzo secolo.
Nel 1912, Shizo Kanakuri è un giovane ventunenne giapponese, un atleta di ottimo livello nato a Tamana e studente presso la Tokyo Normal Higher School. Il sogno Olimpico di Shizo vide la luce proprio grazie all’istituto che frequentava: una raccolta fondi di compagni, professori, ex laureati, facoltà e dello stesso preside Kano Jigoro (fondatore della sede centrale della comunità del Judo), permisero al giovane corridore di poter partecipare alle Olimpiadi in Svezia. Il viaggio fu infinito: treno per Tsuruoka, città portuale, imbarco per Vladivostok e poi transiberiana fino a Mosca. Dopo 18 giorni, finalmente, l’arrivo a Stoccolma. Quell’anno il tempo accreditato di Kanakuri era di 2h 32m e 45s sulla distanza – dell’allora maratona – di 40km e 200 metri la gara venne poi vinta con un tempo di 4 minuti superiore, e, purtroppo per il giapponese, qualcosa per lui andò storto.
Dopo un inizio incoraggiante, infatti, Shizo iniziò a patire la temperatura alta e soprattutto la mancanza di rifornimenti. A tal proposito, alcuni sostengono che durante la gara non ve ne fossero, mentre altri che fu una precisa scelta del giapponese; fatto sta che l’eccessiva stanchezza lo portò ad accettare un bicchiere di succo da un tifoso nella località di Sollentuna, tifoso che lo invitò anche a godere di un attimo di riposo nel proprio giardino di casa. La stanchezza era talmente tanta che l’atleta acconsentì, finendo fatalmente per addormentarsi durante quella pausa. Al risveglio arrivò la doccia fredda: la gara era terminata da ore e lui aveva perso la sua grande occasione. Il rimorso colpì così profondamente Shizo che l’atleta decise di sparire e non farsi mai più vedere in suolo svedese. Solo molti anni dopo, in occasione del cinquantennale dell’Olimpiade, un reporter svedese si prese la briga di cercarlo, e si dice che lo trovò nella piccola città giapponese di Tamana, ormai padre e nonno.
Poco tempo dopo, Shizo fu invitato a completare quel che aveva iniziato quasi 55 anni prima: egli partì da quella casa a Sollentuna e completò i 10 km e poco più che lo separavano dall’arrivo.
Così, 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi dopo, Shizo Kanakuri tagliò il traguardo della Maratona dei giochi Olimpici di Stoccolma 1912.

Con la storia odierna termina questo piccolo progetto portato avanti per poco più di due settimane.
Il grande riscontro avuto non fa che aumentare la mia voglia di informarmi e scrivere sul mondo dello sport. Qualche nuova idea è già in cantiere.
Un enorme Grazie va a tutti quelli che hanno seguito e supportato quest’iniziativa attraverso un commento o un like, scrivendo e chiamando per esprimere il proprio gradimento o seguendo l’evoluzione del progetto durante gli scorsi mesi.

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